Il filosofo Emmanuel Lévinas scrive “il nostro rapporto col mondo, prima ancora di essere un rapporto con le cose, è un rapporto con l’altro. È un rapporto prioritario che la tradizione metafisica occidentale ha occultato, cercando di assorbire e identificare l’altro a sé, spogliandolo della sua alterità”. Per diversi studiosi, la riflessione di Lévinas sull’ Altro costituisce uno dei fondamenti teorici del multiculturalismo contemporaneo, suggerisce, cioè,una visione nuova e diversa dei rapporti fra gli individui e fra le culture: rapporti fra diversi, che come tali vanno riconosciuti e valorizzati. Solo attraverso questo riconoscimento è possibile attivare una comunicazione autentica fra le culture, senza affermazioni egemoniche di una sull’altra. Questa è una prospettiva feconda, attraverso cui, ad esempio, è possibile guardare in modo nuovo ai problemi di rapporti fra le culture che vengono a determinarsi con i processi migratori in atto su scala planetaria. Infatti, anche se la società moderna sembra ormai avviata a diventare multietnica e multiculturale, molti e rilevanti sembrano ancora gli ostacoli che si pongono alla diffusione di un’autentica “cultura dell’accoglienza” nei confronti dell’immigrazione. Osservando la società attuale, appare evidente una forte contraddizione: da un lato, si propende con fiducia per un processo di “globalizzazione” e di apertura che limiti quanto più possibile le barriere
politiche, culturali e soprattutto economiche tre vari paesi del mondo; dall’altro, si guarda con sospetto, ostilità e repressione ai flussi migratori che, dal Sud del pianeta, si spostano verso il Nord.
Pensare ad un mondo in cui le diverse razze e culture si integrino fra di loro, pur mantenendo ciascuna la propria specificità, è elogiabile e forse realizzabile, ma non può far dimenticare le difficoltà e le diffidenze che caratterizzano in molti casi i rapporti tra immigrati e paesi d’accoglienza, originando malcontento ed esasperazione in alcuni strati della popolazione di questi ultimi.
Proprio adesso che ci si avvia verso un mondo globale, emerge in tutta la sua complessità il problema della convivenza tra etnie e culture di varia natura.
Analizzando più nel dettaglio la situazione di due Stati europei come la Francia e la Gran Bretagna, possiamo trovare modi diversi di gestire il problema degli immigrati. In Francia, essi si sono gradualmente integrati, indipendentemente dalla loro origine e dalla religione professata, alla popolazione locale. In Gran Bretagna, invece, avviene un’assimilazione che però non compromette il mantenimento delle peculiarità etniche, religiose e culturali proprie della comunità a cui ciascuno appartiene. Da anni anche l’Italia, per l’afflusso di tanti immigrati soprattutto dal Nord Africa, dal Medio Oriente, dall’Albania e dagli altri paesi dell’Europa orientale, sta avviandosi verso la multietnicità. Tuttavia, privi dell’esperienza chegli americani, per la diversità della loro storia, hanno riguardo alla convivenza sul loro territorio di etnie diverse, e senza neppure la consuetudine a vedere nelle nostre città gruppi di persone provenienti dalle ex colonie, che ha caratterizzato francesi, inglesi ed olandesi, noi italiani siamo stati colti impreparati dal massiccio afflusso di extracomunitari che ha interessato, di recente, il nostro Paese. L’Italia, paese con una lunga esperienza di emigrazione, attualmente sta vivendo, in ritardo rispetto paesi come Francia e Inghilterra, un momento di immigrazione massiccia ed estremamente variegata. Cosicché nella nostra società, che da omogenea si sta trasformando in disomogenea, da religiosamente compatta a religiosamente differenziata, da monoetnica a multietnica, da monolinguistica a plurilinguistica, la multiculturalità è ormai un dato di fatto. Basta dire che nelle scuole italiane, – tra italiano, dialetti, minoranze linguistiche storiche e minoranze linguistiche nuove- si contano ben 190 lingue diverse.
Di recente sui giornali si sono susseguiti centinaia di articoli che riguardano episodi, più o meno gravi, di intolleranza razziale, fatti di cronaca nera che vedono come protagonisti extracomunitari, dibattiti politici su questa o quella proposta di legge per espellere gli immigrati clandestini o tentare di dare sistemazione dignitosa ai “regolari. Per contro, sono emersi in molti paesi industrializzati, Italia compresa, atti di discriminazione, ostilità e razzismo che hanno visto spesso gli immigrati come oggetto di aggressioni che provocano non di rado delle vittime. Dunque,l’integrazione dei popoli e delle culture non è un obiettivo di facile attuazione ma certamente non possono essere giustificati gli atti di discriminazione, ostilità e razzismo. Occorre lavorare alacremente per diffondere presso molte persone un senso di solidarietà verso tutto ciò che appare diverso da loro, nella consapevolezza che un individuo, prima di essere europeo o africano, è un essere umano le cui origini della cultura sono sì elementi di identità e di specificità da preservare, ma sono anche soprattutto mezzi di scambio e comunicazione attraverso cui attuare una completa integrazione ed una pacifica convivenza di tutti popoli.
Di fronte a questi fenomeni in continua e rapida evoluzione, di fronte ad una società sempre più multiculturale e multietnica, si sono posti al sistema scolastico problemi e sollecitazioni di fronte ai quali i tradizionali strumenti e metodi educativi risultano inadeguati. Come viene ribadito sempre più spesso nelle circolari ministeriali del nostro paese, si ritiene, infatti, oramai necessaria l’apertura della pedagogia a una dimensione interculturale, centrata sulla conoscenza e sulla gestione positiva delle dinamiche che nascono dall’incontro con la diversità.
E il tema della diversità, nella sua complessità e radicalità, è il concetto nodale: come la normativa vigente tende a più riprese a sottolineare, infatti, una educazione interculturale presuppone una più generale educazione alla differenza, intesa come meccanismo essenziale del nostro essere nel mondo e il nostro modo di confrontarci con l’esterno.
La differenza è il nostro modo di leggere la realtà: noi pensiamo, ragioniamo e conosciamo il mondo unendo il simile e dividendo il diverso. Ma, ancor prima, la differenza è un fatto umano: esiste in primo luogo una diversità biologica, centrale nella storia dell’umanità. Poi ci sono le normali differenze interne alla vita dei singoli individui: il carattere, i sentimenti, le reazioni, essere giovani, ecc. Per concludere c’ è poi la differenza culturale, cioè quella tra noi e gli altri popoli, ovvero coloro che parlano un’altra lingua, adorano un altro dio, seguono altre leggi e si attengono ad altri modelli sociali.
Una diversità in tutti i casi è difficile, scomoda, perché ci spinge a interrogarci sul confine tra il rispetto dell’altro e delle sue scelte e la difesa delle nostre scelte e della nostra identità, sulla validità e sui limiti della nostra “norma”.
Il diverso è anche l’estraneo, l’opposto, e quindi per certi aspetti il nemico. C’è un naturale, istintivo desiderio di autoaffermazione in noi che deve fare i conti con la presenza di qualcosa che è diverso, in altre parole qualcosa di cui non facciamo parte e che, proprio per questo, ci minaccia; siamo insomma istintivamente portati a rifiutare l’altro, ad affermare attraverso questo rifiuto la nostra “totalità”, la nostra centralità e priorità rispetto al resto del mondo.
È in questo senso che le differenze culturali e le relazioni interetniche in seno ad una società multietnica come la nostra rappresenta un problema da affrontare.
Informarsi, confrontarsi con il diverso, capirlo, è molto difficile, implica un grande sforzo, ma soprattutto mette in discussione, ci potrebbe mettere in crisi. E così ci accontentiamo di giudizi sommari sui “diversi”, di stereotipi (in genere negativi), di pregiudizi (rubano il lavoro, rubano le donne/uomini, non si vogliono integrare,…) che ci portano a segnare una separazione, un rifiuto, e nello stesso tempo, una gerarchia (ovviamente a nostro vantaggio).
Fissare in immagini pregiudiziali non è solo un facile strumento di riduzione del diverso alle nostre categorie, ma serve anche a creare un’immagine positiva di noi e a giustificare le nostre azioni. Purtroppo i pregiudizi e la tendenza alle semplificazioni e a rappresentazioni distorte radicalizzano le incomprensioni, impediscono l’incontro, lo scambio reciproco e lasciano dominare la fobia del diverso, il desiderio di non vederlo, di negarlo, di ricacciarlo da dove è venuto. E tutto ciò spiana il terreno al razzismo. Ma di fatto il nostro futuro comprende il convivere con la diversità ed è, dunque, necessario imparare a farle posto. Ciò significa in primo luogo smascherare i pregiudizi e le ottusità nascoste nei luoghi comuni più scontati, quindi mettere in discussione conoscenze, valori ed istituzioni, decentrare e relativizzare il nostro punto di vista, acquisire punti di vista in più, dare spazio anche ciò che non è come noi.
Questo perché l’ identità culturale non è un blocco monolitico e statico, ma, prima di tutto, un prodotto umano e quindi qualcosa di dinamico che può assorbire gli stimoli esterni, trasformarsi, divenire.
Nessuno è per sua intrinseca natura “diverso”, è sempre la prospettiva di chi guarda a determinare la realtà, stabilire chi è “normale” e chi no, in base alle sue idee, ai suoi desideri, alle sue paure. Basta cambiare posizione, ipotizzare, lasciare spazio ad uno sguardo diverso, per scoprire un altro modo di leggere la realtà,un’altra scala di valori. Rifiutare questa relatività e porre come assoluta la propria centralità significa negare l’altro. Ma, d’altra parte, è impensabile rinunciare al proprio punto di vista, alla propria scala di valori, che si dissolve nella propria identità, in altre parole attuare una completa assimilazione. La soluzione è tra questi due estremi opposti, nel trovare cioè un equilibrio conciliando la conoscenza di sé e il rispetto dell’altro.
In un tale panorama si intuisce l’importanza, nonché la difficoltà, dei compiti che attualmente attendono la scuola: limitarsi, infatti, a dire che il “relativismo culturale” è una condizione minimale da porre come base a una società interculturale non risolve certo il problema. Una società interculturale si forma attraverso un’educazione interculturale che deve essere assunta in sede pedagogica, in quanto essa implica un ripensamento tanto dell’elaborazione quanto del momento della trasmissione della cultura.
A tale riguardo uno dei primi testi che riporta i concetti fondanti dell’educazione interculturale è la Dichiarazione sulla razza e pregiudizi razziali che la conferenza generale dell’Onu per l’educazione, la scienza e la cultura ha firmato a Parigi nel 1978 (in particolare l’articolo 5). Tra gli altri documenti normativi inerenti l’educazione interculturale nella scuola, un quadro dettagliato del nuovo contesto della trasmissione e dell’elaborazione della cultura e delle linee di intervento auspicabili in tal senso è contenuto nella Pronuncia del consiglio nazionale della Pubblica Istruzione sull’educazione interculturale nella scuola del 1292 e nella C.M e. n. 73/1994 Proposte e iniziative per l’educazione interculturale (che ha assorbito in un unico documento il contenuto della normativa precedente).
Educazione interculturale significa contribuire a sviluppare un’identità che sia positiva nel confronto con l’ interazione dell’ “altro”. Ad un tale compito, urgente quanto difficile, sono chiamati tutti docenti di tutte le scuole di ogni ordine e grado attraverso la loro attività quotidiana “sulla base di una rinnovata professionalità e un impegno progettuale e organizzativo fondato sulla collaborazione e sulla partecipazione”.[1]
L’interculturalità non è una materia a sé, ma un punto di vista, una prospettiva, che deve trovare spazio in ogni campo. Si tratta di una prospettiva interdisciplinare, che deve riguardare tutte le materie dei curricula scolastici: essa va inserita nell’ora di musica, di italiano, e soprattutto di lingua straniera (dove l’insegnamento dovrebbe già espletarsi giocoforza con uno sguardo interculturale…).
I notevoli cambiamenti avvenuti all’interno del gruppo classe, che vede oggi la presenza di prime, seconde e terze generazioni di migranti, richiede scelte adeguate e strumenti legislativi e culturali per coniugare le esigenze di modelli molto diversificati.
Il docente comincia, dunque, a porsi alcuni problemi fino a qualche tempo fa ignorati: ” Questo mio atteggiamento offende le persone “diverse” che mi stanno di fronte?”, “Spiegare le crociate come difesa contro i barbari incivili che avevano conquistato il Santo sepolcro offende il ragazzo arabo che mi sta di fronte?”, “Esaltare i carbonari anti-austriaci offende l’austriaco il cui antenato è morto sotto le bombe?”…
Assumere un punto di vista interculturale vuol dire riconoscere pari dignità a tutte le culture, comprendere che ogni cultura è degna di rispetto e mettere in atto tali concetti attraverso l’interazione e il dialogo. L’interazione è la strategia-chiave, perché interculturalità significa reciprocità, apertura, rispetto, scambio, accoglienza, contaminazione… interagendo si produrrà, infatti, integrazione senza assimilazione, la quale non va ricercata a tutti i costi perché essa implicherebbe fondamentalmente un atteggiamento di superiorità.
Conferire un taglio interculturale al proprio modo di insegnare da parte dei docenti significherà indurre gli allievi al “decentramento” e alla “circolarità” dei propri punti di vista, alla loro relativizzazione, così che l’ “io” del soggetto faccia spazio anche al punto di vista degli “altri” ed impari a guardare sé e alla propria cultura con lo sguardo che l’altra cultura gli restituisce. Solo così il relativismo culturale, che è un atteggiamento psicologico, si attuerà in logica del “rispetto”, ovvero in un modo di comportamento, che potrà portare la società multiculturale a divenire una società interculturale.
Valentina Corrente
[1] Proposte e di iniziative per l’educazione interculturale,C.M. n 73/ 1994